Con Anna Maria Corradini la consulenza filosofica entra negli istituti

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Qualche anno fa Anna Maria Corradini, consulente filosofica nonché donna adulta, appagata professionalmente e umana–mente”, per riprendere la descrizione che ne dà Angela Venezia* nella prefazione di Mille ore in carcere (Diogene Multimedia, 2020) – pensò di verificare se la sua disciplina avrebbe potuto essere utilizzata anche nel mondo carcerario. Da allora ha incontrato detenuti e operatori di cinque regioni (Veneto, Trentino, Friuli Venezia Giulia, Umbria e Toscana) e firmato, in veste di presidente dell’associazione Eutopia, protocolli di consulenza gratuita con i relativi Provveditorati dell’Amministrazione Penitenziaria.
In Mille ore in carcere Anna Maria Corradini racconta come la consulenza filosofica abbia aiutato a cambiare il modo di pensare di alcune persone “ristrette” ma anche l’idea che lei stessa aveva del carcere, al punto che, superata la sperimentazione, ritiene siano maturi i tempi per progetti più stabili e strutturati.

Anna Maria Corradini

Nel libro scrive che “prima di entrarvi” pensava che “in carcere fosse racchiuso il “male”. Per gran parte della società, il carcere continua a essere un contenitore del male. Come si può, secondo lei, cambiare questa idea comune?
“Ho scritto il libro anche per far conoscere e capire un mondo come quello carcerario, complesso, con criticità ma anche opportunità, popolato non solo da detenuti ma da donne e uomini della polizia penitenziaria, educatori e altro personale che svolge un lavoro importante benché poco conosciuto”.

 La domanda che in questi anni le è stata fatta più spesso è “chi è consulente filosofico?”…
“Infatti, ma lo ripeto volentieri. Un consulente filosofico è uno “specialista del pensiero”, cerca cioè di capire quali sono le riflessioni che condizionano i comportamenti di una persona, compresi quelli che l’hanno condotta in carcere. L’obiettivo è di portare colui che riceve la consulenza a fare scelte eticamente consapevoli. Un approccio che dai non esperti può essere facilmente confuso con quello dello psicologo: in realtà è molto diverso, perché lo psicologo valuta il funzionamento dei processi psichici, individua e tratta le loro eventuali anomalie. La consulenza filosofica, invece, lavora sul pensiero attraverso la domanda costante, l’ascolto e la sospensione del giudizio. In carcere questa differenza è accentuata, perché gli psicologi appartengono all’equipe di osservazione e trattamento, la loro relazione è importante per ottenere benefici e questo porta a i detenuti a voler sembrare “migliori”. Nel rapporto con il consulente filosofico questo non può accadere, perché siamo vissuti come figure fuori dal sistema. A inizio consulenza io dico chiaramente di condannare comunque la condotta che ha portato la persona in carcere perché è stata già giudicata da un tribunale. Io non parlo del reato ma della persona, senza voler con questo sminuire il lavoro degli psicologi che spesso si limitano alla diagnosi, e in contesti penitenziari raramente hanno l’opportunità di curare”. 

Nel libro lei scrive che “il dolore non è un’emozione negativa (…), ma un principio-valore, necessario per risvegliare una consapevolezza dell’agire”. Secondo la sua esperienza tutte le privazioni che porta il carcere sono utili ?
“Il dolore a cui mi riferisco è il dolore dell’esistenza,  è la sofferenza, non il dolore provocato dalle privazioni dovute alle conseguenze del reato. Il carcere assolve alla sua funzione se offre la possibilità di studiare, lavorare, frequentare attività culturali. Una delle risorse della detenzione è l’abbondanza di tempo che, però, deve essere tempo per riflettere, anche se molti detenuti non sono abituati a farlo. Altrimenti è tempo sprecato”.

Lei ha tenuto incontri di gruppo anche con personale amministrativo e di Polizia Penitenziaria.  Che tipo di riscontro ha avuto?
“All’inizio c’è stato un po’ di timore, superato proprio quando i partecipanti hanno compreso che la consulenza filosofica non ha niente a che vedere con colloqui con uno psicologo. Soprattutto per il personale di Polizia Penitenziaria andare dallo psicologo significa mostrare una fragilità che non può permettersi. Sia chiaro, la fragilità è anche bellezza, è una qualità che contiene sensibilità che va protetta. Ma un agente non può sembrare debole in un contesto in cui è esposto a provocazioni di ogni tipo e nel contempo deve essere professionale e disponibile ad ascoltare le tante richieste che gli vengono poste dai detenuti, soprattutto nelle sezioni a custodia aperta”.

Con il personale in quali casi la consulenza filosofica si è rivelata più utile?
“In alcuni casi di suicidi di colleghi perché, in questi casi, da affrontare non è stato solo il dolore per la perdita di una persona vicina, spesso amica, ma anche il senso di colpa che in genere compare. Ci si rimprovera di non aver capito il malessere della persona, si ritiene di essere stati egoisti e non in grado di intervenire in tempo”.

Cosa ricorda con maggiore emozione di queste prime mille ore in carcere?
“Un giovane detenuto che mi ha detto: ‘La porterò sempre con me’. Ho pensato che questo dà un senso al mio lavoro perché vuol dire che resta nel tempo. Il bene è un moltiplicatore del bene così come il male lo è del male”.

 

*Angela Venezia è dirigente – direttore Ufficio III detenuti e trattamento – Provveditorato Regionale Toscana e Umbria