A Bergamo una mostra sul carcere del passato
per capire il presente

FacebookTwitterWhatsAppEmailCopy Link

“La memoria è un elemento importante nella vita di una collettività e fare memoria del carcere significa tracciare l’iter storico e sociale di una comunità. Non dobbiamo mai dimenticare che nel carcere e nella sua storia si rispecchia la trasformazione del pensiero, della coscienza della società: il carcere da luogo di punizione a luogo di trattamento e recupero della persona”. Così Teresa Mazzotta, direttrice della casa circondariale “Don Resmini” di Bergamo, ha spiegato perché ha deciso di sostenere e collaborare con la ricerca sul vecchio carcere di Sant’Agata condotta da ISREC – Istituto Bergamasco per la storia della Resistenza e condivisa con Comune di Bergamo e Associazione Maite.

Gli studiosi hanno potuto accedere agli archivi dell’attuale istituto penitenziario dove sono conservati materiali e reperti utili a ricostruire il passato del Sant’Agata e, con esso, la trasformazione storica e sociale della detenzione.

“Una collaborazione che ci ha permesso non solo di studiare alcuni documenti conservati nell’archivio, ma anche di arrivare a esporre oggetti di uso quotidiano del carcere di Sant’Agata conservati negli archivi di via Gleno”, aggiunge Elisabetta Ruffini, direttrice dell’ISREC e autrice del dossier “Se quei muri potessero parlare. Una pagina di storia per un museo in costruzione (ed. Il Filo di Arianna) che racconta le storie di uomini e donne detenuti nella prigione tra il settembre del 1943 e l’aprile/maggio del 1945.

Dal 15 giugno il progetto della mostra è divenuto realtà proprio all’interno della vecchia struttura carceraria che conserva ancora celle, corridoi e altri ambienti originali.  Indumenti e divise hanno così ritrovato posto su mensole e vecchie brande, registri e schede negli scaffali dell’antica matricola insieme ad altri oggetti il cui uso è illustrato in un percorso museale immersivo e accompagnato da un taccuino per approfondire temi e concetti proposti in ogni cella.

Negli ultimi venti mesi della seconda Guerra Mondiale, il carcere di Sant’Agata fu infatti l’epicentro della repressione nazifascista e “quei muri” conservano le tracce lasciate da detenuti politici, ebrei e perseguitati che vi sostarono, in attesa di fucilazione.

Pietra d'inciampo - Alessandro Zapata
Pietra d’inciampo – Alessandro Zapata

Fra le storie di cui ci è stata restituita la memoria c’è anche quella di Alessandro Zappata, agente penitenziario che in quegli anni aiutò i detenuti politici e per questo fu deportato nel lager di Flossemburg dove poi morì. A lui – la cui vicenda è rimasta a lungo sconosciuta – è stata dedicata davanti all’ingresso del carcere  una pietra d’inciampo in occasione dell’ultima Giornata della memoria.

L’umanità e il sacrificio di Zappata portano a riflettere sulla continuità di valori e, insieme, sulla  crescita “del ruolo di quella che oggi si chiama polizia penitenziaria – conclude Mazzotta -. La trasformazione della terminologia da ‘secondini’ a ‘polizia penitenziaria’ evidenzia un’evoluzione professionale di un corpo che ha tra i propri compiti non soltanto quello di garantire l’ordine e la sicurezza ma anche quello del trattamento nei confronti delle persone private della libertà personale”.