A Rebibbia una casetta per ospitare i colloqui delle detenute

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È un prefabbricato in legno di abete di poco meno di 30 metri quadrati. Il tetto ha le falde inclinate come nella tradizionale idea di casa che ci accompagna fin dall’infanzia e, quando era ancora uno scheletro ligneo in costruzione, rimandava tanto alla indimenticabile scena della costruzione della casa in “Sette spose per sette fratelli”. Una “piccola, miracolosa, casetta nel parco di Rebibbia”, per dirla invece con le parole di Renzo Piano, senatore a vita nonché archistar genovese, promotore e supervisore dell’iniziativa che, insieme ad altre tre, fa parte del progetto sulle periferie elaborato dal Gruppo di lavoro G124, presentato nella prestigiosa cornice della Sala Zuccari di Palazzo Madama il 28 novembre scorso.

Il Modulo Affettività e Maternità in carcere (M.A.MA.), è frutto di una collaborazione interistituzionale fra l’Ufficio Tecnico del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, guidato dall’architetto Ettore Barletta, il Provveditorato Regionale del Lazio, Abruzzo e Molise e un team di tre giovani architetti dell’Università romana La Sapienza che, guidati dalla professoressa Pisana Posocco e sotto la supervisione di Renzo Piano, hanno disegnato la casa.

Si tratta di un piccolo spazio abitativo, dotato di soggiorno, angolo cottura, zona pranzo e una piccola loggia per accedervi che sorge in un’area verde all’interno dell’istituto penitenziario Rebibbia Femminile, impreziosita dalla robusta presenza di una magnolia e di un eucalipto. La parte strutturale del modulo in legno è stata realizzata nella falegnameria della Casa circondariale Mammagialla di Viterbo da un gruppo di detenuti addetti alla lavorazione, coordinati dal direttore tecnico convenzionato con l’istituto e coadiuvati da alcuni detenuti di Rebibbia.

Ma, soprattutto, è il luogo dove le donne detenute nell’istituto romano possono incontrare i propri congiunti, mangiare insieme e insieme sedersi attorno a un tavolo. Un modo per rendere meno traumatica la distanza con i propri cari al momento del colloquio e, al tempo stesso, permettere alla detenuta di mantenere il ruolo di madre con il proprio nucleo familiare in un ambiente che intende, appunto, ricreare quello domestico.