Dove nasce il perdono / 1
Lucia Di Mauro Montanino

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Le vittime di reati gravi e i loro parenti invocano più carcere per i loro carnefici, senza sconti di pena o altre scorciatoie.
Esiste anche un’altra strada per elaborare il dolore e sentirsi risarciti da una giustizia responsabile. E’ la strada della riconciliazione che ha nobili precedenti nelle “Commissioni del Sudafrica”, volute da Nelson Mandela, in una fase di superamento del conflitto.
Un modello di giustizia che non vuole cancellare il debito con la società ma mettere il colpevole nella condizione di affrontarlo sostenendo lo sguardo della persona alla quale ha fatto del male. Sono ormai molte le vittime che, spontaneamente o attraverso percorsi di mediazione penale, hanno intrapreso un cammino di riconciliazione. Abbiamo incontrato alcune di loro per capire da dove nasce la scelta che può portare al perdono.

Se non fosse stato per Lucia, Antonio probabilmente adesso sarebbe in carcere a Poggioreale, con una condanna lunga da scontare. Ma quella donna, che lui chiama il suo “angelo custode”, gli ha aperto la strada per trovare un lavoro in una cooperativa con sede in un’area confiscata alla mafia, che gli ha permesso di avere la libertà vigilata, di veder crescere i suoi bambini cercare di assicurare un’infanzia diversa dalla sua. Non solo, ma Lucia, dopo che Antonio è uscito, l’ha educato e guidato nella strada della legalità – come non ha fatto la sua vera madre -, e continua ad aiutarlo a superare i tanti ostacoli che incontra un uomo con il suo passato.
Solo che Lucia Di Mauro Montanino, come lei stessa sottolinea, non è una volontaria o una terapeuta: è la moglie della guardia giurata che Antonio e altri tre ragazzi assassinarono il 4 agosto 2009 in piazza Mercato, a Napoli, per rubargli la pistola.
Antonio era il più giovane, neanche diciassette anni, rapinatore da tempo e padre da pochi giorni. Condannato a 30 anni, poi ridotti a 22, è “già” fuori dopo otto.
Un caso di quelli per cui una parte dell’opinione pubblica potrebbe gridare allo scandalo, per una “libertà” arrivata troppo presto, per troppa poca galera che invece si sarebbe meritata tutta, e che è giunto all’attenzione delle cronache per il motivo opposto. Se Antonio oggi può uscire, lavorare, stare con i figli, lo deve in gran parte alla vedova dell’uomo che ha ucciso.

Eppure per Lucia il dolore, la rabbia per l’ingiusta fine del marito sono stati a lungo devastanti. Poi il bisogno di confrontarsi entrando a far parte del “Coordinamento di familiari di vittime innocenti” di Napoli, dove incontra tante persone che hanno perso i loro cari per i motivi più assurdi. Da lì l’urgenza di costruire qualcosa di positivo: “Non dobbiamo abituarci al sangue sull’asfalto, come accade a Napoli – dice oggi – ma far nascere dal sangue alberi, giardini, vita”.
Per anni il solo pensiero di incontrare l’assassino di suo marito la faceva star male. Antonio gliel’aveva chiesto tramite il direttore dell’istituto minorile di Nisida. Poi l’incontro è avvenuto quasi per caso, durante una marcia di ”Libera” sul lungomare di Napoli cui Antonio aveva avuto il permesso di partecipare. “Rivolsi lo sguardo verso di lui. Cercavo un mostro, vidi un ragazzino – ha raccontato Lucia in un’intervista a repubblica.it di un anno fa – Non ho mai avvertito tanto dolore negli occhi di una persona. Era come un animale ferito dal male che lui stesso aveva provocato”. Antonio ha chiesto perdono e Lucia l’ha aiutato a cambiare vita, arrivando in pratica ad adottare la sua famiglia. Oggi il lavora nel bene confiscato alla mafia intitolato proprio alla sua vittima, Gaetano Montanino e “arrotonda” con qualche turno come cameriere, impiego procuratogli da uno chef che a Nisida aveva tenuto un corso di cucina.
“Vorrei che il ragazzo che ha ucciso mio marito fosse l’esempio che un cambiamento è possibile” è solita dire Lucia Di Mauro ai tanti convegni in cui racconta la sua esperienza per far riflettere su un sistema di esecuzione penale che ritiene incompleto.

“E’ vero che a questo ragazzo è stata data la possibilità di uscire dal carcere, ma senza alcun sostegno – dice –. Le cooperative non sempre pagano puntualmente e Antonio si è dovuto trovare un altro lavoro saltuario. Chi affitta, poi, una casa a una persona in libertà vigilata, sapendo che potrebbero esserci controlli delle forze dell’ordine a ogni ora? Così un giovane è costretto a tornare a vivere con la famiglia spesso in ambienti ai limiti della legalità. Credo che alla giustizia manchi la concretezza. Lo Stato dovrebbe investire in attività lavorative all’esterno risparmiando costi di lunghe detenzioni e offrendo a giovani in esecuzione pena opportunità reali di reinserimento”. Presto Antonio potrà lasciare la stanza in subaffitto dove vive con la compagna e i due figli e andare a vivere in un appartamento avuto in locazione grazie a un finanziamento di Banca Etica. Una buona notizia per Lucia che si aggiunge a un’altra: la medaglia d’oro che tra qualche giorno la prefettura di Napoli conferirà alla memoria di Gaetano.
“Tutti mi chiedono cosa penserebbe Gaetano del mio impegno a favore di uno dei suoi carnefici – conclude -. Rispondo che ne sarebbe felice perché si è evitata una vittima in più. Una giustizia che pensa solo a punire non fa altro che creare nuove vittime”.