Dove nasce il perdono / 2
Giorgio Bazzega

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Le vittime di reati gravi e i loro parenti invocano più carcere per i loro carnefici, senza sconti di pena o altre scorciatoie.
Esiste anche un’altra strada per elaborare il dolore e sentirsi risarciti da una giustizia responsabile. E’ la strada della riconciliazione che ha nobili precedenti nelle “Commissioni del Sudafrica”, volute da Nelson Mandela, in una fase di superamento del conflitto.
Un modello di giustizia che non vuole cancellare il debito con la società ma mettere il colpevole nella condizione di affrontarlo sostenendo lo sguardo della persona alla quale ha fatto del male. Sono ormai molte le vittime che, spontaneamente o attraverso percorsi di mediazione penale, hanno intrapreso un cammino di riconciliazione. Abbiamo incontrato alcune di loro per capire da dove nasce la scelta che può portare al perdono.

“Ricordo che quando è stata data la notizia della scarcerazione di Renato Curcio, ho provato una sensazione fisica di dolore per un’ingiustizia insopportabile verso me e la mia famiglia. Lo Stato ci aveva abbandonato e quello che ritenevo il vero responsabile della morte di mio padre era già libero. Da allora iniziai ad avere l’ossessione Curcio, pensavo che un giorno lo avrei incontrato e ucciso”.

Nei primi anni 90 Giorgio era un ragazzo tormentato che sfogava la sua rabbia nella boxe e nelle arti marziali.
Oggi ricorda con un filo di autoironia quel periodo della sua vita in cui compilava elenchi di ex terroristi e fantasticava su come stenderli a colpi di tai chi.
Suo padre, il maresciallo di pubblica sicurezza Sergio Bazzega, fu ucciso assieme al vicequestore Vincenzo Padovani da Walter Alasia il 15 dicembre 1976, durante un’irruzione nella casa dei genitori del terrorista, a Sesto San Giovanni. Alasia aveva vent’anni ed era stato formato alla lotta armata da Renato Curcio. Morì pochi minuti dopo mentre tentava di fuggire nello scontro a fuoco che il maresciallo aveva cercato in tutti i modi di evitare per non rischiare di colpire i familiari del ragazzo . A lui fu intitolata la colonna milanese delle Brigate rosse, guidata all’inizio da Mario Moretti e Barbara Balzerani, responsabile di omicidi, sequestri e gambizzazioni.

Giorgio non aveva neanche tre anni eppure conserva qualche ricordo vivido e felice di suo padre, come le visite domenicali allo zoo e le soste sulle sue spalle robuste davanti alla gabbia di un vecchio leone malinconico.
“Dopo la morte di mio padre – ricorda – non mi spiegarono bene cosa fosse successo: si era ancora nei tempi in cui si pensava che i bambini dovessero essere ‘protetti’ da certe verità. In casa si facevano solo pochi accenni ma soffrivo alle cerimonie di commemorazione, dove ricevevo carezze sulla testa e ascoltavo descrizioni di un papà eroe perfetto, così lontano e diverso da me”.

Nel complesso un’infanzia serena, in una famiglia unita, con una madre che, grazie alla fede religiosa, non ha mai pronunciato parole d’odio.
L’età della rabbia è arrivata con l’adolescenza quando Giorgio ha iniziato a vedere gli ex capi Br uscire dal carcere: “Poiché mi consideravo una vittima dello Stato, mi sentivo autorizzato a non rispettare lo Stato e le regole della convivenza civile”.
Anni di dolore ingannato con la droga, di vita ai limiti, di propositi di vendetta, di risalite e di ricadute. Poi una strada terapeutica efficace che gli ha fatto capire che doveva affrontare la rabbia senza anestetizzarla con le sostanze.

“All’inizio sono entrato a far parte dell’Associazione vittime del terrorismo che realizza interventi straordinari a livello legale e assistenziale però alcune sue regole e battaglie non mi erano congeniali, assecondavano quasi la mia voglia di rivalsa”.
E’ decisivo l’incontro con Manlio Milani, che Giorgio conosce ad un evento pubblico.
“ Sentire quell’uomo, che aveva visto sua moglie morire dilaniata in piazza della Loggia, parlare con tanta potente serenità, mi ha provocato una specie d’illuminazione. Per la prima volta vedevo una persona colpita da un’azione così violenta e insensata togliersi il vestito di vittima e divenire protagonista di un percorso aperto al dialogo con ex terroristi”.

Grazie a Manlio Milani, Giorgio entra in un gruppo di giustizia riparativa dove vittime e responsabili della lotta armata s’incontrano a scadenze regolari per cercare, con l’aiuto di tre mediatori – il padre gesuita Guido Bertagna, il criminologo Adolfo Ceretti e la giurista Claudia Mazzuccato – di affrontare una lacerazione che nessuna pena può bastare da sola a ricomporre. Un percorso durato dieci anni.
“Alla prima riunione del gruppo ho detto: voglio ammazzarvi tutti. Non è stato facile, ma incontrare tanti altri ex terroristi mi ha portato a sostituire i mostri che avevo nella testa con delle persone”.

Nel frattempo aveva imparato a conoscere suo padre dai racconti della madre e degli amici: non più l’eroe distante, ma il ragazzo allegro e gioviale, il poliziotto “tosto e umano” che rispettava, pur combattendoli, gli appartenenti alla lotta armata.
“Ho capito che il dialogo, il confronto all’interno delle regole dettate dal nostro ordinamento con chi quarant’anni fa stava dall’’altra parte’ e oggi è critico con quel passato, sarebbe in linea con gli ideali di mio padre”.

Giorgio oggi sta completando il corso per mediatore penale “…per affrancarmi – dice – definitivamente dal ruolo di vittima”.
Anche se impossibile, è in qualche modo avvenuto anche l’incontro con Walter Alasia nel senso che oggi Giorgio lo vede con altri occhi: “Penso che aveva vent’anni, che era un periodo terribile in cui si parlava di torture della polizia, che quando ha sparato, oltre a colpire mio padre, ha rischiato di uccidere i suoi genitori.Immagino il suo sconvolgimento e, se questa non è una giustificazione, mi porta a considerarlo una persona e non un mostro”.
“ Nel gruppo di giustizia riparativa – aggiunge – mi sono soprattutto reso conto che quello che chiedevo in nome della Costituzione –sofferenza e vendetta per gli autori di reato – è in realtà contro la Costituzione per la quale mio padre è morto”.

E, alla fine, arriva anche il momento di incontrare Curcio. Accade in un centro sociale alla Barona, il quartiere di Milano, dove Giorgio vive. “ Ero dibattuto e spaventato perché non avevo ancora finito il percorso, temevo le mie reazioni”. Poi decide di affrontare la prova decisiva: “L’ho avvicinato, gli ho chiesto se si ricordava di mio padre e poi di Alasia. Forse sono stato aggressivo nel tono e lui ha indietreggiato. Invece gli ho dato una pacca rassicurante sulle spalle e ho detto: ‘Stai tranquillo, io abito a cinquanta metri, sai chi sono io, sai chi era mio padre, volevo solo guardarti negli occhi’. E mentre me ne andavo, ho immaginato papà che mi dava un coppino e mi diceva: ‘Hai visto, te lo sei trovato davanti e l’hai guardato. Sei guarito!’”