Dove nasce il perdono / 3
Maria Luisa Iavarone

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Le vittime di reati gravi e i loro parenti invocano più carcere per i loro carnefici, senza sconti di pena o altre scorciatoie.
Esiste anche un’altra strada per elaborare il dolore e sentirsi risarciti da una giustizia responsabile. E’ la strada della riconciliazione che ha nobili precedenti nelle “Commissioni del Sudafrica”, volute da Nelson Mandela, in una fase di superamento del conflitto.
Un modello di giustizia che non vuole cancellare il debito con la società ma mettere il colpevole nella condizione di affrontarlo sostenendo lo sguardo della persona alla quale ha fatto del male. Sono ormai molte le vittime che, spontaneamente o attraverso percorsi di mediazione penale, hanno intrapreso un cammino di riconciliazione. Abbiamo incontrato alcune di loro per capire da dove nasce la scelta che può portare al perdono.

Napoli, dicembre 2017, un pomeriggio prima di Natale nella centralissima via Foria.
Arturo – studente, diciassette anni – sta camminando tranquillo quando un gruppo di ragazzini gli piomba addosso, lo investe con una raffica di coltellate e si dilegua. Avvertita da un passante, sua madre arriva poco dopo e lo trova a terra in una pozza di sangue. I fendenti hanno reciso al ragazzo la giugulare e provocato il distacco della pleura.

Arturo si salva grazie a diversi interventi chirurgici e, superato il trauma iniziale, assieme ai suoi familiari inizia a chiedersi il perché di tanto accanimento. Abiti non vistosi, niente griffe o segni particolari che lasciassero pensare a telefonini o orologi costosi da rubare: il ragazzo non sembra una preda per cui valesse la pena rischiare e, del resto, gli aggressori non hanno preso neanche il cellulare alla loro vittima. Tutto questo suggerisce una risposta sconvolgente: nessun movente, solo ferocia fine a se stessa.
Eppure casi come questi, a Napoli, sono frequenti e, a quanto pare, non sconvolgono più: basta cercare in rete e si scopre un mondo da brivido, qualche riga di cronaca e poi tutto dimenticato, ordinari fatti d’insensata violenza.
Già poco dopo l’accaduto, Maria Luisa Iavarone, la madre di Arturo, dichiara a giornalisti e telecamere di essere determinata a diventare una testimone scomoda e pronta ad affrontare l’esposizione mediatica, non solo per avere giustizia per suo figlio ma anche “per ottenere un’attenzione costante ai temi della legalità e della sicurezza a Napoli – ribadisce oggi – Arturo ha riportato danni permanenti ma non ho mai avuto interesse a personalizzare la vicenda quanto a renderla esemplare. Voglio che mio figlio da vittima diventi attore di un cambiamento”.
Maria Luisa mantiene l’impegno ad avvalersi di una “comunicazione spinta”, come la definisce, aiutata, il caso ha voluto, anche dalla sua professione: docente di pedagogia sociale all’università Parthenope, si dedica da anni allo studio di modelli educativi e ai bisogni legati a specifici contesti di disagio, come la marginalità sociale.

Diretta ed efficace, Maria Luisa non manca di catalizzare l’attenzione dei media e diventa in breve un simbolo della lotta alla violenza minorile. Due mesi dopo l’aggressione, accompagnata dalle telecamere di “Piazza pulita” – nel corso di un reportage sulle baby gang – si presenta nel basso dove vive il primo indagato, Francesco, detto Kekko ‘O Nano a causa di una statura che, a quindici anni, non arriva al metro e mezzo. Va a proporre alla madre del ragazzino una collaborazione “da mamma a mamma” per vincere l’omertà e trovare i responsabili, ma la donna che le apre la porta e che le porge la mano chiamandola ossequiosamente “professoressa”, difende ostinatamente il figlio, che qualche mese dopo sarà condannato a dieci anni in primo grado per il tentato omicidio di Arturo.
Quello che a prima vista sembrerebbe un incontro mancato diventa invece emblematico di un approccio al fenomeno della devianza minorile che passa attraverso la responsabilizzazione comune di genitori e istituzioni, prevede modelli di prevenzione seri e chiede non pene più severe ma neanche indulgenza, impunità, assuefazione.
Maria Luisa Iavarone afferma di non credere nell’utilità di abbassare l’età imputabile ma è anche nettamente critica con certi eccessi opposti: “Iper-garantismo e iper-giustizialismo non servono ad affrontare il problema. Gli estremi dividono le persone, mentre dobbiamo essere tutti uniti su obiettivi reali, sostenibili sul piano dell’efficacia. Uno dei quattro ragazzi che hanno aggredito mio figlio era in messa alla prova. Ottiene questa misura oltre il 95 per cento dei minori, ma purtroppo ci sono automatismi che devono essere disarticolati”.
La docente ha idee piuttosto chiare di come farlo: “Occorre introdurre elementi di ordine metodologico per rilevare i comportamenti a rischio. Il tutto va affrontato in un’ottica sistemica, da tutte le componenti sociali”.
Da qui l’idea di costituire l’associazione A.R.T.U.R. che richiama il nome del figlio, ma che in realtà è l’acronimo di Adulti Responsabili per un Territorio Unito contro il Rischio e promuove azioni per prevenire la violenza minorile secondo un modello sistemico, che impegni tutti i soggetti coinvolti nei percorsi educativi.
Nel corso del convegno organizzato nel giugno scorso proprio da A.R.T.U.R. per presentare la ricerca di Fondazione con il Sud “Miezz’avia: dalla dispersione scolastica alle baby gang” il presidente della Camera Roberto Fico ha sintetizzato efficacemente questo tipo di approccio: “Il percorso interiore di legalità e giustizia lo dobbiamo fare tutti, tenendo sempre presente la parola ‘insieme’”.

In seguito sono individuati e arrestati gli altri tre presunti componenti del branco, tutti minorenni e uno, non imputabile, che sarà con ogni probabilità affidato all’impegno educativo della famiglia.
“Il fatto è che dobbiamo prenderci cura non solo di questi minori, ma in molti casi anche degli adulti che ne avrebbero la responsabilità – dice Maria Luisa -. Spesso i minori sono espressione di un contesto criminale acclarato: come possiamo pensare di non intervenire sulle famiglie?”. La docente propone sostegno, formazione e “l’erogazione di uno speciale reddito di cittadinanza per la genitorialità responsabile per quei genitori che dimostrino comportamenti adeguati nell’accompagnamento dei figli che manifestano condotte a rischio”.
“Corri contro la violenza”, competizione sportiva organizzata il 27 maggio scorso con il patrocinio di Università Parthenope, Comune di Napoli, Regione Campania e Coni è stata tra le prime iniziative di A.R.T.U.R. Una scelta non casuale la corsa, presentata come “strumento simbolico di contrasto alla violenza in quanto se si intende affrontare rigorosamente questo problema bisogna procedere tutti assieme, nella medesima direzione, allenandosi con impegno, assumendo un traguardo comune”.
La manifestazione ha visto la presenza delle scuole, dei centri di promozione sportiva, di atleti e ha raccolto l’adesione di testimonial fra sportivi e artisti, come Massimiliano Rosolino, Patrizio Oliva, Diego de Silva, Maurizio De Giovanni, Edoardo Benna e Michele Placido.
Fra i progetti di Maria Luisa c’è la creazione anche di un corso di laurea specialistico in servizi educativi e sportivi per la prevenzione del rischio, “per formare educatori e sportivi competenti nella capacità di contenere il rischio ma sempre in un’ottica sistemica. In Campania l’indice di obesità infantile è il più alto d’Italia e la prevenzione va fatta su tutti i versanti”.
Prossimo impegno, il 1° dicembre, il convegno “Napoli …Generazione zero” organizzato con il Dipartimento di Scienze Motorie e del Benessere dell’Università degli Studi di Napoli Parthenope in cui si affronteranno, assieme a interlocutori politici e istituzionali, temi educativi e di giustizia sociale in relazione alle risorse e alle criticità del territorio.

Ma torniamo ad Arturo, a quasi un anno da quel terribile pomeriggio in via Foria. Pochi giorni fa ha iniziato ad andare a scuola di boxe con un allenatore d’eccezione, Patrizio Oliva. Un modo per crescere con le regole e la realtà dello sport in risposta alla viltà dei coltelli che lo hanno ridotto in fin di vita.

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