Informazione sul carcere, attenzione alla verità e a chi ci lavora

Carcere Poggioreale - generica
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Ci sono articoli che sono scritti in bianco e nero. No, non parliamo di scelte che escludono il colore in favore di un sapiente uso di gradazioni di grigio. Parliamo di una precisa volontà di separare nettamente il bianco dal nero, di individuare tutto il bello da una parte e tutto il brutto dall’altra. L’articolo intitolato “Cose buone dal carcere”, pubblicato il 10 luglio scorso su Tempi, individua tutte le cose buone nelle attività svolte dalla Pasticceria Giotto all’interno della casa di reclusione di Padova (che, indubbiamente, di cose indiscutibilmente buone ne sforna tantissime), parlando male di tutto il resto.

Ora, è vero che sparare a zero sul carcere è facile. Ma non dimentichiamo che il carcere, comunque la si pensi, è e resta un luogo previsto dal nostro sistema penale e di esecuzione penale, regolato da leggi e regolamenti. E in quanto istituzione, non può essere raccontato con banalità o superficialità, né con affermazioni palesemente false, come quelle contenute nel suddetto articolo.

Perché i 60mila detenuti italiani a cui il giornalista fa riferimento non vivono “22 ore al giorno in una cella di tre metri per tre”, non fanno “a turno con gli altri tre compagni per stare in piedi nell’unico fazzoletto di pavimento non occupato dalle brande”, non prendono “2 ore d’aria, una la mattina, una il pomeriggio, stipati con tutti gli altri carcerati dentro gabbie all’aperto che sembrano voliere da zoo”. Non fosse altro che per la riforma penitenziaria seguita alla sentenza Torreggiani e per il controllo esercitato da organismi sovranazionali, neanche nella peggiore cinematografia di serie B si riscontrano simili situazioni e di certo non all’interno dei nostri istituti.

Così come non è vero che “nelle galere italiane non si esce da quei buchi che sono le celle” e non è vero che “durante il giorno i detenuti possono ciondolare un po’ nel piano di pertinenza” solo “se sono fortunati”. Sono sei anni, proprio in questi giorni, che la circolare DAP del 14 luglio 2013 con le “Linee guida sulla sorveglianza dinamica” disciplina l’apertura delle celle per i detenuti in media sicurezza per almeno 8 ore al giorno, con la possibilità di muoversi all’interno della sezione e di usufruire di spazi più ampi per le attività, prevedendo in virtù di tale novità che la Polizia Penitenziaria non sia più chiamata ad attuare un controllo statico sulla popolazione detenuta, ma piuttosto un controllo incentrato sulla conoscenza e sull’osservazione.

È falso inoltre che “in tutto il paese sono meno di mille i carcerati che svolgono un lavoro vero per imprese sociali”: a fine 2018 erano 2.386 quelli che hanno lavorato alle dipendenze di terzi; senza contare i 4.500 che, a rotazione, hanno svolto nel corso dell’anno lavori di pubblica utilità e che sono stati preventivamente formati proprio da imprese esterne.

Infine, due considerazioni: perché ostinarsi ad appellare più volte come “secondini” gli agenti di Polizia Penitenziaria, tanto più che proprio uno degli intervistati li nomina correttamente? E poi: se si scrive che “la linea di Pasticceria Giotto è rigore disciplinare assoluto”, aggiungendo tanto di esempio esplicativo (“chi ruba un candito è fuori: su certe cose non si può transigere”), perché stigmatizzare, poche righe dopo, l’”handicap notevole di un’ora e mezza di scrupolosi controlli dei secondini su ogni camion che va o che viene”, attività svolta proprio in nome di quello stesso rigore?

Sarebbe importante che nel raccontare la bontà di iniziative come questa (e negli istituti italiani di esperienze valide ve ne sono diverse), non ci si dimentichi di riflettere sul fatto che tutto ciò sia possibile grazie anche all’impegno dell’Amministrazione. Come sottolinea, con un mix di irritazione e delusione, proprio il direttore della casa di reclusione di Padova Claudio Mazzeo: “Non vengono evidenziate la professionalità e l’abnegazione degli operatori del trattamento e della Polizia Penitenziaria dell’istituto che ho l’onore di dirigere, che consentono lo svolgimento in sicurezza delle attività svolte dai detenuti”. Non solo: “Spesso – spiega Mazzeo – i servizi giornalistici realizzati all’interno dell’istituto curano ed evidenziano solo l’attività svolta da operatori del terzo settore, e a volte solo di taluni, dimenticando di rappresentare non solo la vasta ricchezza di attività culturali e sociali esistente all’interno del penitenziario, ma soprattutto il lavoro e l’impegno, anche economico, posto in essere dall’Amministrazione”.

Insomma, se il sistema funziona è perché tutte le componenti fanno la loro parte e tutte contribuiscono al risultato. Il carcere è di per sé un mondo che va considerato e valutato nella sua complessità: certamente per le sue tante criticità, ma anche per la miriade di cose buone che sa esprimere, esperienze che toccano tanto il lato costituzionale che quello umano della materia. Ma per farlo è necessario raccontarlo nella sua completezza, senza superficialità, banalità o prevenzioni di sorta.