Flavio Insinna: “Il teatro
è viaggiare oltre le sbarre”

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Cento lettere. Dalle sbarre alle stelle (Itaca Edizioni), è il racconto di una vita difficile, quella di Attilio Frasca, oggi detenuto nel carcere di Pescara. Un’opera inconsueta per struttura – pagine autobiografiche alternate a lettere all’amico Massimo – e, soprattutto, per sincerità. Il suo protagonista rievoca, infatti, la propria crescita criminale – dalla tifoseria violenta, ai furti, allo spaccio di droga all’omicidio per il quale è stato condannato a 30 anni di reclusione – senza invocare nessuna attenuante di emarginazione o di carenze affettive. Un racconto del passato che rende autentica la riflessione sul presente e la volontà di scegliere una strada diversa. “Non posso accettare di uscire peggio di come sono entrato – scrive Attilio in una delle sue lettere -. Desidero un nuovo orizzonte davanti a me; oggi, come mai prima d’ora, voglio poter immaginare un futuro”.

Cento lettere, scritto a quattro mani da Frasca con il regista RAI Fabio Masi, è ora anche un’opera teatrale, messa in scena dai detenuti della casa circondariale di Pescara per la regia di Ariele Vincenti.
Nello spettacolo, che ha debuttato il 1°dicembre sul palcoscenico dell’istituto penitenziario, prendono voce altri due amici fraterni di Attilio, anch’essi reclusi, che da vari carceri italiani inviano lettere a casa di un altro loro amico, Massimo, l’unico ad essersi costruito una vita pulita e solida, con una famiglia e dei figli. A interpretare Massimo è  l’attore Flavio Insinna che ha partecipato al percorso teatrale di sette mesi, sostenuto dal Teatro Stabile d’Abruzzo con la direzione artistica di Simone Cristicchi, tenuto da Ariele Vincenti, in collaborazione con Fabio Masi.

L’attore e noto personaggio televisivo ci racconta come è stato fare teatro dentro un carcere.

Lei scrive che la propensione alle esperienze scomode si ha nel DNA. Aver fatto teatro con i detenuti in carcere, rientra tra le esperienze scomode?

“Innanzitutto dovremmo accordarci su cosa si intende per scomodo, vuol dire forse: difficile e doloroso. Per esempio quando uno dice “non starò mai con la maggioranza” è perché probabilmente ce l’ha iscritto nel DNA. Mio padre curava i malati di mente, i disabili, i tossicodipendenti e mi ha insegnato a non giudicare, mi ha insegnato ad aiutare. Quando dico scomodo mi riferisco al fatto che non siamo andati in un luogo di allegria, ma l’abbiamo comunque trovata, abbiamo riso, abbiamo condiviso le sigarette durante la pausa come fanno gli attori in una compagnia tradizionale. Io credo che sarebbe più comodo la domenica andarsene al mare visto che fino al venerdì notte lavoro, ma siccome non mi lascio mai in pace, probabilmente come l’anima di Attilio che non lo lascia in pace e che gli presenta a un certo punto della sua vita lo spettro del suo passato, ho preferito fare questa cosa. Penso che la vita sia fatta per andare dove è più scomodo e se mi dovessi rifugiare in una citazione di un libro ne sceglierei una tratta da “La città della gioia” di Dominique Lapierre: “Se vuoi capire la vita devi andare dove puoi guardare il dolore dritto negli occhi”. Io sono curioso della vita e delle persone, non voglio giudicare ma voglio capire e quindi il fine settimana vado a incontrare queste persone in carcere, senza la pretesa di riuscire ad aiutarle ma con il primo pensiero di dire senza dirlo: non siete dimenticati, c’è qualcuno che vi odia, c’è qualcuno che vi ha dimenticato ma esiste anche chi non vi dimentica. Credo che si debba dare una seconda possibilità soprattutto a chi ha sbagliato, darla a chi ha fatto tutto giusto è facile. Mio padre mi diceva che avrei dovuto fare il sindacalista non l’attore, proprio per la mia attitudine a essere contro quasi a prescindere e soprattutto dalla parte dei meno fortunati e quindi lo stesso sentimento che mi porta in una casa di riposo, in un ospedale o dai bambini di Amatrice con un audio libro è la stessa spinta che mi porta oggi in carcere per vivere questa occasione che nasce dall’amicizia con Fabio Masi”.

Sembra che il teatro per Attilio sia la prova di un cambiamento in parte già avvenuto. Prima di andare in scena ha perso tutta la sua spavalderia, conosce finalmente un’emozione nuova. Crede che questo sperimentarsi diverso, individuale e collettivo, sia la forza “pedagogica” del teatro in carcere?

“E’ un incontro tra persone, il teatro ti dà questa possibilità e io credo che le cose belle nascano dai tentativi e che il mondo lo cambino i pazzi e quelli che non hanno paura di sfidare il ridicolo, se il giorno della prima dovessimo fare qualche figuraccia questo non toglierebbe comunque nulla alla sincerità del tentativo e alla voglia di stare dalla parte di chi perde. È un’attitudine, mi viene naturale, si va per chi è in difficoltà, chi ha già tutto non ha bisogno di una mano, io credo che la fortuna che ho avuto vada rimessa in circolo. Era da molto tempo che nelle prove a teatro non mi emozionavo così, quindi la domanda è: “Chi ha dato di più a chi?”, la vera domanda è questa, chi se ne va più ricco tra me e loro? Io ci ho messo un grande entusiasmo, mi sono speso ma quello che ho ricevuto è tantissimo, di più. E vedere accadere delle cose meravigliose in un teatrino di un carcere molto semplice con le luci accese a mezzogiorno, senza scenografia… vuol dire che la vita e il teatro ancora una volta si intrecciano e fanno quel piccolo miracolo lì.
Io non sono un insegnante né un teorico, faccio questo lavoro da artigiano e posso dire che il teatro ha salvato ampie parti della mia vita, è un incontro tra viventi, tra corpi, tra persone, tra dolori. Il teatro ti permette di tirare fuori il tuo dolore, incanalarlo in battute, si può ridere e fare delle risate che in altre circostanze non faresti, il teatro ti può proteggere. Quando arrivo alle prove, spengo il telefono ed entro in un mondo tutto mio che è meraviglioso, quello che abbiamo fatto con Fabio Masi e con Ariele Vincenti è stato quello, quando prima di entrare lasciavamo i telefoni fuori entravamo poi in un altro mondo. Io non lo so se i detenuti della compagnia hanno studiato per fare teatro, io so di averlo fatto, ma quello che ho imparato da loro è stato tanto. Io non lo so se questa esperienza potrà davvero cambiarli, ma resto convinto che i tentativi vadano fatti, io sono andato lì perché avevo capito che avrei dovuto leggere qualche lettera tratta dal libro ma poi sono stato risucchiato da una forza che ho trovato là e questo va detto. Io non so se il teatro ha valore pedagogico e salvifico, io so che per l’ennesima volta ho incontrato persone che non conoscevo, mi sono aperto e loro si sono aperti a me e sono stato risucchiato a di là della mia volontà in uno spettacolo che poi è un viaggio, è riduttivo chiamarlo spettacolo, è un viaggio dove li ho visti soffrire veramente, li ho visti intristirsi, riflettere sulle loro cose e ritornare a pensare alle battute in maniera diversa, anche trovare un modo di dare delle indicazioni, di dare suggerimenti. Non è scontato perché sai che davanti hai una persona che ha sofferto e che ha fatto soffrire. È la magia del teatro ma è soprattutto la forza degli incontri veri, quelli in cui tu ti apri e lasci che la vita ti conquisti. Siamo andati lì e loro ci hanno annusato, ci hanno pesato e si sono fidati, noi gli abbiamo messo l’anima sul palcoscenico e ci hanno creduto”.

Dopo averlo frequentato, è cambiata la sua idea del carcere e di chi ci vive (detenuti e operatori)?

“Credo che la proposta da parte dello Stato debba essere quella di sforzarsi il più possibile per cercare di creare occasioni di lavoro vero in tutte le carceri, in modo che tu possa “fare” e che ti possa innamorare. E’ troppo facile dire “ una volta usciti torneranno a delinquere”, se però noi non gli abbiamo fatto neanche vedere il mare. Il carcere deve avere e dare la possibilità di riabilitare, per farlo non basta il teatro, serve la scuola e serve il lavoro. I detenuti della compagnia hanno capito che la vita è fatica, perché io li ho visti faticare, li ho visti stancarsi, ci hanno regalato la loro fatica e la loro obbligazione, questo è un passaggio da sottolineare. Hanno capito che per migliorare e per crescere devi faticare, il famoso sudore di cui sempre parliamo, abbiamo sudato con loro e forse qualcuno avrà pensato che così magari è più bello piuttosto che fare una rapina per avere più soldi. La vita è fatica e ne abbiamo avuto conferma e ci siamo emozionati perché finire la giornata stremati e vedere anche loro sfiniti per averci dato la loro forza e la loro dedizione nel provare e riprovare, a volte addirittura chiedendoci di riprovare una scena, è come il segno di vita su Marte”.

Fotografie gentilmente concesse da Antonello Nusca