Io sono Germana Stefanini, vigilatrice penitenziaria

Busto dedicato alla memoria della vigilatrice penitenziaria Germana Stefanini
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Una cerimonia per rendere omaggio alla memoria della vigilatrice penitenziaria Germana Stefanini si svolgerà giovedì 30 novembre 2023, alle ore 11, nella Casa circondariale femminile di Roma Rebibbia intitolata a suo nome. La commemorazione vuole onorarne il ricordo nell’anno in cui ricorre il 40° anniversario della sua uccisione, avvenuta per mano di un gruppo terroristico.

Il 9 luglio 1926 nasceva a Roma Germana Stefanini. Il 28 gennaio 1983, cinquantasette anni dopo, una telefonata anonima, ricevuta dal centralino della Casa circondariale femminile di Roma Rebibbia, rivendicava “l’annientamento” della vigilatrice penitenziaria Germana Stefanini. Il suo corpo veniva ritrovato, il giorno successivo, all’interno del bagagliaio di una Fiat 131, parcheggiata in via Cesare Algranati, zona Tiburtina. Prima di venire uccisa, fu sequestrata nella sua casa e sottoposta a un “processo proletario”.

Il 1° febbraio 1983 alti esponenti dello Stato, tra i quali il Presidente della Repubblica Sandro Pertini, partecipavano alle esequie nella Chiesa del Sacro Cuore di via Casal dei Pazzi.

All’esito del processo, l’11 aprile 1987, la Corte di assise di appello di Roma confermava la pena dell’ergastolo nei confronti di Francesco Donati, Carlo Garavaglia e Barbara Fabrizi.

Il 12 settembre 2007 Germana Stefanini veniva insignita di Medaglia d’Oro al Merito Civile alla Memoria.

Il 4 luglio 2012 il Comune di Roma Capitale le intitolava una via nella parte nord della città.

Il 21 novembre 2017 la Casa circondariale femminile di Roma Rebibbia è stata intitolata alla sua memoria.

Molto è stato autorevolmente scritto su questa triste pagina della storia italiana e del Corpo di Polizia penitenziaria.

Nell’anno 2023 ricorre il quarantennale della morte di Germana Stefanini. Può essere l’occasione per capire se qualcosa non è stato ancora raccontato di lei. E in quale modo il dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria possa commemorare questa data e impegnarsi per restituire ai suoi familiari, ma anche a se stesso e ai cittadini tutti, un senso  che vada oltre il dolore e la perdita.

Una risposta a queste domande è arrivata dall’incontro con i familiari di Germana Stefanini, la nipote Maria Luisa Zaia e suo marito, Massimo Pulicati, che stanchi di piangere nel ripercorrere ogni volta l’ultimo giorno di vita della zia, vogliono invece ricostruire e raccontare chi è stata Germana Stefanini, la donna, la zia, la vigilatrice penitenziaria. Riavvolgendo idealmente il nastro da quella telefonata anonima del 28 gennaio 1983 fino al 9 luglio 1926.  Perché Germana Stefanini non può e non deve venire identificata solo con l’episodio drammatico che ha posto fine alla sua vita, ma anche per le caratteristiche che la rendevano una donna speciale, nella sua normalità.

Germana in famiglia non parlava mai del suo lavoro: raccontava solo della sua passione per le rose, che curava nel giardino del carcere e per i prodotti agricoli che talvolta portava a casa. Per poter descrivere anche questo suo aspetto, sono state raccolte le testimonianze di alcune ex vigilatrici penitenziarie, che erano in servizio con lei nel carcere di Rebibbia femminile.

Dai racconti emerge la storia di una famiglia umile, originaria del centro di Roma, che abitava in via Frangipane, nel Rione Monti, il più antico di Roma, composta dal padre, Alfredo Stefanini, dalla madre, Filomena Bontempi, e dai fratelli Carlo e Anna Maria, tutti molto legati tra loro. Uno dei luoghi significativi per tutta la famiglia è stata la Basilica dei Santi Cosma e Damiano, dapprima luogo del matrimonio dei genitori, poi cortile di gioco dei figli e infine luogo in cui si sono celebrati i funerali della famiglia.

Germana, che aveva potuto studiare solo fino alle scuole elementari, si era poi dedicata ad accudire i genitori e alla loro morte aveva dovuto cercare un lavoro. Nel 1975, con l’aiuto di una zia suora era entrata nella Casa circondariale femminile di Roma Rebibbia come operaia trimestrale, nonostante altre fossero le aspirazioni.

Con lo stipendio che riceveva, Germana poteva permettersi di acquistare oggetti di marca, cosa non comune per l’epoca, dalle lenzuola di Frette ai saponi Roger gallet e anche l’acqua di colonia; poteva portare l’unica nipote, Marisa, a passeggiare nel centro di Roma. L’adolescente trascorreva spesso i pomeriggi con la zia, seguendola per il rione Monti, via Nazionale e fino piazza di Spagna. Per Germana, che non aveva figli, era bello donare il suo tempo e fare anche regali alla nipote.

Germana e i fratelli da principio vivevano tutti insieme, poi nel 1983 lei si era trasferita da sola nell’ultima casa nel quartiere romano Prenestino, in via Guglielmo Albimonte. Il suo appartamento, ordinato e ben arredato, fino a molti anni dopo ha continuato ad emanare il profumo delle saponette riposte in ogni cassetto.

Sulla vita privata di Germana non non si hanno molte notizie, familiari ed ex colleghe la descrivono allo stesso modo: una donna normale, riservata, concreta e severa. Viveva da sola, una delle poche amiche era M.C., che abitava nello stesso palazzo e con la quale era solita prendere il caffè. La stessa amica che si salvò poiché non salì da Germana quando questa la chiamò su richiesta dei suoi sequestratori.

Da principio Germana in istituto svolgeva il servizio delle traduzioni e quello di vigilanza delle detenute nell’orto. Fu poi spostata al servizio colloqui, in quello che sarebbe stato l’incarico definitivo: operava con impegno e rigore, fornendo costantemente istruzioni alle più giovani, senza però lasciare loro troppa autonomia, mentre aveva maggiore complicità con le sue coetanee. Tuttavia era allo stesso tempo una persona dolce e disposta ad aiutare. Sempre curata e ordinata, sia quando indossava il camice celeste, che poi divenne la scamiciata color carta da zucchero e infine la camicetta celestina sopra la gonna con piega dello stesso colore. Anche fuori dal lavoro vestiva in maniera semplice ma attenta, una vera passione per lo smalto rosso Valentino e rosso era anche il cappotto che indossava il giorno dell’uccisione.

Dai racconti delle ex colleghe,  il lavoro in istituto non era vissuto come particolarmente pesante e sembrava le piacesse. All’epoca di Germana vi erano circa cinquanta vigilatrici, c’era spirito di gruppo e le detenute erano addette alla cucina. Il passaggio dalla gestione delle suore a quello degli agenti di custodia era stato vissuto come tutti i passaggi con qualche difficoltà.

La mattina dell’8 gennaio 1983 Germana aveva portato dei pasticcini per festeggiare l’apertura della nuova sala colloqui. C’era un po’ di trambusto, perché ancora in via di organizzazione, e i controlli, che avvenivano davanti ai parenti,  sollevavano qualche rimostranza da parte loro. Infatti, proprio quel giorno, Germana aveva discusso con i genitori di una detenuta per un oggetto che non era possibile far entrare. Alle 14:30, termine del servizio, una collega come altre volte le diede un passaggio in macchina fino l’autobus 311 che non arrivava fin davanti al cancello del carcere.

Da qualche tempo tra il personale vi era paura, cioè da quando il 3 dicembre 1982 Giuseppina Galfo, medico di Rebibbia, aveva subito un attentato. Germana tuttavia, ormai vicina alla pensione, continuava ad apparire tranquilla e non mostrava insofferenza per il suo lavoro o timori particolari, conducendo sempre la stessa vita regolare e semplice, fatta dei medesimi movimenti. Ma il clima già teso del momento, precipitò con quella telefonata anonima. Allo shock seguirono la paura e il sospetto, perché si parlava di una lista di nomi di chi era in servizio ai colloqui. Il personale cercò di fronteggiare quei momenti come poté: alcuni, anche se abitavano a Roma, la notte si sentivano più sicuri nel restare a dormire in caserma, altri si licenziarono e si trasferirono altrove, chi ci credeva o non poteva fare altrimenti, rimase. Per sé stesso, per lo Stato e anche per Germana.

In qualche modo quella telefonata fu uno spartiacque che lasciò tutti increduli: una ferita grave, un omicidio inaspettato, efferato, incomprensibile, che colpiva una donna, una vigilatrice penitenziaria quasi vicina alla pensione. Lasciando una sensazione di vulnerabilità a tutto il sistema. Il lavoro in quel carcere, dopo non fu più lo stesso, raccontano.

Il nastro ora è stato riavvolto, la nascita di Germana si è ricongiunta con la sua morte. Anche questa dunque era Germana Stefanini, vigilatrice penitenziaria. Dall’album dei ricordi dei suoi familiari e delle sue colleghe. “Io sono Germana Stefanini” ha proprio il senso di volerle dare voce nella sua interezza. La sua vita, come quella di tante donne di allora e di oggi, si è snodata tra famiglia e lavoro, con riservatezza, rigore, semplicità. Il lavoro in carcere, come spesso accade, non fu una scelta per lei, ma giorno dopo giorno, con l’esperienza e la dedizione, seppe svolgerlo e insegnarlo. Del carcere condivideva anche i momenti importanti, come testimoniano i pasticcini portati l’ultimo giorno per l’inaugurazione della nuova sala colloqui: Germana si sentiva parte di un gruppo e riconosceva il suo ruolo. Dalle testimonianze raccolte non emerge altro se non questa immagine normale che apparentemente non riesce a giustificare la sua uccisione ma che forse, a ben guardare, nasconde valori che rafforzano le istituzioni e le rendono come dovrebbero essere.

Queste sono allora le risposte che possiamo darci oggi. Gli eroi assumono varie forme e spesso si nascondono in chi vive e lavora accanto a noi. Il tributo più alto che possiamo rendere loro è certamente commemorare la loro morte, talvolta l’unico episodio distonico rispetto a una vita normale, ma anche e soprattutto commemorare la loro vita, perché è dalla loro quotidianità che apprendiamo qualcosa. E riavvolgere la vita di Germana Stefanini può aiutarci a darle un’anima oltre al volto raffigurato nelle fotografie o nel busto che campeggia all’ingresso dell’istituto a lei intitolato.

Questo è l’impegno che il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria può e deve assumersi per il futuro, tramandare la memoria anche della sua vita e del suo lavoro all’interno del carcere, svolto con la stessa professionalità fatta di riservatezza, precisione, rigore ed empatia, che ancora oggi connota l’operato del Corpo di Polizia penitenziaria.

Ilaria Garbarino è dirigente di Polizia Penitenziaria