L’ALTRA SPOON RIVER

Ingresso carcere
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L’altra faccia della rivolta. In realtà niente facce, solo nomi: ma anche vite, storie, quelle che Giuliano Foschini e Fabio Tonacci hanno scavato per raccontare i giorni della protesta delle carceri italiane su il Venerdì di Repubblica attraverso le vicende personali dei 13 detenuti morti nel corso dei disordini. Testimonianze e ricordi di chi li aveva conosciuti, assistiti e anche amati. Per gentile concessione degli autori pubblichiamo l’articolo nella sua versione integrale.

PARTIAMO DA QUI. Dai nomi, dai cognomi, dalle età. Carlo Samir Perez Alvarez, 28 anni. Haitem Kedri, 29 anni. Abdellah Rouan, 34 anni. Marco Boattini, 35 anni. Ghazi Hadidi, 36, Chouchane Hafedh 36. Erial Ahmadi, 36. Slim Agrebi, 40. Salvatore Cuono Piscitelli, 40. Lofti Ben Masmia, 40. Ante Culic, 41. Artur lsuzu, 42. Ali Baiali, 52 anni. Sono tredici vittime che non troverete mai nella Spoon River del coronavirus. Eppure sono persone morte in prigioni italiane, mentre erano sotto la custodia dello Stato, per colpa di un effetto collaterale della pandemia: il panico. Erano i primi giorni di marzo. Le televisioni raccontavano di un Paese che era a un passo dalla serrata. Le direzioni dei penitenziari avevano bloccato, per tutelare le salute dei detenuti, ogni contatto con l’esterno. E questa, di fatto, si è rivelata l’involontaria miccia che ha dato fuoco alle polveri: da Milano a Palermo, da Roma a Modena, sono partite le rivolte. Intere sezioni sono state devastate. Agenti e guardie sono stati aggrediti. I vestiti sono stati incendiati e appesi alle grate, perché la gente vedesse.

Diversi detenuti sono scappati e alcuni sono stati riacciuffati. Centinaia di loro sono stati trasferiti e subiranno condanne durissime. In tredici sono morti. «Tutti nella stessa maniera: overdose», osserva l’associazione Antigone che si occupa dei diritti e delle garanzie nel sistema penale e che ha già presentato, in tal senso, esposti alle procure.

 SEI LITRI DI METADONE IN TRE Tra i deceduti ce n’erano tre ancora in attesa di un primo giudizio. Altri avevano condanne definitive da scontare. Per Salvatore Cuono Piscitelli era questione di settimane e sarebbe uscito. Salvatore era nel carcere di Modena con Erial, Hafedh, Slim e altri sei. A Bologna c’era Haitem, che aspettava il processo. A Rieti erano in tre, Marco, Ante e Carlos, e in tre hanno bevuto sei litri di metadone, come raccontano le relazioni del Dipartimento di amministrazione penitenziaria (Dap). Marco era Marco Boattini. «E quello in carcere è stato l’ultimo atto della sua vita sfortunata», racconta al Venerdì Rosa, la cugina. L’ultima (o forse l’unica) con cui Marco aveva mantenuto un contatto. Era entrato dopo una condanna per una rissa aggravata, oltre che per questioni di droga. E la droga aveva caratterizzato gli ultimi passi della sua esistenza, la morte della madre lo aveva sconvolto. Il resto lo avevano fatto i rapporti sempre più sottili con il padre – che da tempo viveva all’estero – e con il fratello. Casa sua, dalle parti di Pomezia, era diventata una sorta di “comune”: occupata da un gruppo di suoi amici balordi, in realtà spacciatori, che riempivano Instagram di filmati di Marco impegnato in cose demenziali, alle volte umilianti. Lavorava in una tipografia, aveva anche incontrato una ragazza che gli voleva bene. Poi il carcere, la droga. Quell’ultima bottiglia di metadone a cui attaccarsi. «Purtroppo non bisogna meravigliarsi di ciò che è accaduto», sostiene Federico Pilagatti, sindacalista del Sappe, uno dei sindacati più attivi tra gli agenti di Polizia penitenziaria. «Un terzo dei detenuti ha problemi di tossicodipendenza. Inevitabile che, per molti di loro, la prima reazione, a rivolta iniziata, sia stata assaltare le infermerie». Potevate fare di più? «Muoverci prima», dicono gli agenti. E questo lo sanno anche al Dap, che ha aperto una serie di inchieste interne. Radio carcere segnalava da tempo come stesse “salendo la temperatura”. L’interruzione dei colloqui e il divieto, o comunque le restrizioni, nella consegna dei pacchi, anche quelli alimentari, avevano prodotto tensioni e tossine.

 FOGGIA, SUDAMERICA «Bloccare i colloqui ha significato, di fatto, interrompere l’ingresso di sostanze stupefacenti. Che non dovrebbe avvenire, ma avviene». A parlare è uno degli investigatori che si sta occupando della grande evasione dal carcere di Foggia, l’evento più incredibile nella storia delle carceri italiane da molti anni a questa parte. «Una scena da Sudamerica», la definisce. Il 9 marzo settantadue ospiti su seicento hanno forzato i cancelli e sono fuggiti. C’è la prova che dimostra come questo non sia successo per caso, che non sia soltanto l’esito di una protesta improvvisa: fuori dall’istituto penitenziario c’erano delle auto che aspettavano alcuni detenuti. Avevano i motori accesi, erano pronte a partire. Erano lì per prelevare esponenti di primo piano della mafia foggiana. Alcuni si sono consegnati dopo poche ore. Altri si sono dileguati.

 IL SISTEMA NON REGGE Dicono, dunque, «ci siamo mossi tardi, forse si poteva prevenire». Come? Introducendo, ad esempio, la possibilità di effettuare i colloqui con i familiari via Skype, cosa di cui si discute da tempo. Ma quando il ministero della Giustizia ha dato il via libera, era troppo tardi. Racconta Valeria Pire, la direttrice del carcere di Bari, tra i precursori del video-colloquio: «È stato emozionante guardare detenuti che dopo anni rivedevano le pareti di casa, i loro cani e i loro gatti». Il ministro Alfonso Bonafede ha riferito in Parlamento di aver distribuito 1.600 smartphone agli istituti e che altrettanti sono in via di acquisizione. Le associazioni chiedono – ora che non possono arrivare pacchi dall’esterno – l’innalzamento dei limiti di spesa per ciascun detenuto. Ma chiedono soprattutto più attenzione: al 29 febbraio il sistema penitenziario italiano disponeva di 50.931 posti, a cui bisogna sottrarne i 2.000 resi inagibili dalle rivolte dell’8 e 9 marzo. I presenti, il 25 marzo, erano 58.386. Quasi 10.000 in più rispetto a quelli che può sopportare il nostro sistema.

IL SEGRETO DI ERIAL Erial Ahmadi, tunisino, in quel sistema ci stava dal 20 dicembre 2018. È morto nel Sant’Anna di Modena 1’8 marzo. Diceva a tutti di essere marocchino, ma non lo era. E non si chiamava nemmeno Erial Ahmadi, quello era il nome che ha dato la prima volta che per lui si sono aperte le porte del carcere quasi due anni fa. Sulle spalle aveva cinque condanne (resistenza a pubblico ufficiale nel 2012, piccolo spaccio e, appunto, false dichiarazioni sull’identità) che gli erano valse una permanenza in cella per tre anni e mezzo. «Non era una testa calda, né un esagitato», ricorda il suo avvocato, Lorenzo Bergami. «Gli avevano concesso il regime di semilibertà, poteva lavorare, all’interno della struttura, retribuito, si occupava delle pulizie». Fine pena: 14 gennaio 2022. La vera pena, però, ce l’aveva dentro e non ne vedeva la fine. «Aveva una figlia di 12 anni avuta con una donna in Italia, con la quale non stava più e non sentiva più, ma quella bambina era il suo segreto doloroso», racconta Paola Cigarini, del Gruppo Carcere-Città, che al Sant’Anna organizza incontri, un giornale interno, dei laboratori. «Una volta si ritrovò a pulire la stanza dove teniamo i figli dei carcerati in attesa del colloquio, quella stanza ha dei banchini bassi e delle piccole sedie. Erial stava pulendo, poi all’improvviso si è bevuto l’alcol e il detergente. Dopo quel gesto gli hanno tolto la semilibertà. Quando si è ripreso gli ho chiesto cosa fosse successo, perché nessuno capiva, mi ha risposto, con la testa bassa e lo sguardo al pavimento: ho visto quei giochi, quei banchi, e ho pensato a mia figlia, ho pensato che non so dove sia, cosa faccia, se sta bene o no». Erial tartassava Paola perché voleva che gli comprasse il cappellino alla moda, le scarpe firmate. «Rispondevo di no, gli spiegavo che stava seguendo degli inutili stereotipi, e che avrebbe fatto meglio a risparmiare quegli spiccioli che guadagnava lì dentro. Lui mi fissava un po’, si abbassava, mi dava un bacio in fronte e diceva: “ho capito, ho capito…”». Nessuno veniva a trovarlo. Fuori nessuno che lo aspettava.

LA SOLITUDINE DI CHOUCHANE Anche Chouchane Hafedh non aveva nessuno, in Italia. Non un appoggio da un amico, un domicilio provvisorio, dove poter scontare la pena ai domiciliari. E infatti, pur avendone il diritto, era rimasto in cella al Sant’Anna. Tunisino come Erial, stava per tornare in libertà: a fine marzo sarebbe uscito. Mancavano pochi giorni. Ora la sua salma è nel frigo dell’obitorio, e non sarà rimpatriata come invece, da Mahdia in Tunisia, implora suo padre Mosel: la pandemia ha chiuso i voli internazionali da e per l’Italia, non c’è possibilità ne voglia di fare il trasporto. Chouchane stava scontando una pena definitiva per spaccio. Aveva problemi con la droga, ma ancor di più con l’alcol. Soffriva di asma e aveva ottenuto in passato degli sconti proprio per via del sovraffollamento carcerario. Stare in un posto ristretto lo faceva stare male. Il suo legale, Luca Sebastiani, lo ha visto l’ultima volta qualche giorno prima della sommossa. Era sereno. «La famiglia è sconvolta, non può pregare neppure sulla sua tomba. Vuole capire cosa è successo. Sono come me: in attesa degli esiti dell’autopsia».

Giuliano Foschini Fabio Tonacci