Triathlon, le Fiamme Azzurre
in corsa per Tokyo
25 Luglio 2019
Nelle ultime settimane il triathlon ha messo su casa in Canada: prima le due prove di paratriathlon in Quebec – con il nostro paralimpico Giovanni Achenza terzo alle World Series di Montreal e poi davanti a tutti nella World Cup di Magog – poi le WTS di Edmonton, lo scorso weekend. E lì, nell’Alberta, Davide Uccellari ha colto il suo miglior piazzamento nel massimo circuito iridato (14°), che vale più di un campionato mondiale, mentre il quartetto italiano per metà a trazione Fiamme Azzurre – lo stesso “Uccio” e Beatrice Mallozzi, con Alessandro Fabian e Verena Steinhauser – si è piazzato al quinto posto nella Mixed Relay, mai così in alto in una tappa delle World Series. A questo punto tutti i nostri P.O. sono assolutamente in corsa per la “carta olimpica”: Uccellari e il romano Delian Stateff anche per l’individuale maschile, la junior Mallozzi disponibile per la staffetta mista – proprio per non compromettere il percorso di crescita di una ragazza della classe 2000 – e una pattuglia paralimpica formata dal sassarese Achenza nella categoria “handbike” e dalla due volte olimpica Charlotte Bonin come “guida” della calabrese Anna Barbaro nella categoria non vedenti e ipovedenti. Detto così sembra tutto facile e lineare: ma dietro i numeri e i piazzamenti c’è tutto un mondo di fatica e di passione.
Il triathlon? Si dice che tutto sia nato oltre quarant’anni fa, da una sfida che il capitano dei marines John Collins aveva lanciato ai commilitoni di stanza nelle Hawaii: mettere insieme tre prove massacranti che già si disputavano in quell’arcipelago, la gara di nuoto di Waikiki (3.8 chilometri), la “Bike race” di Oahu (112 miglia, ovvero 180 chilometri) e la Maratona di Honolulu (sui classici 42 chilometri e 195 metri). Nasceva così l’Ironman, che ancora si svolge ogni anno tra le isole del Pacifico: e da quello, per rendere le cose un tantino più umane, è derivato il triathlon olimpico, ridotto – si fa per dire – alla frazione di nuoto su un chilometro e mezzo, a 40 chilometri in bici e alla corsa finale sui 10 chilometri. In tutto, per i più bravi, poco più o poco meno di due ore di sofferenza.
Le Fiamme Azzurre hanno un filo diretto con questa disciplina: è stato il primo Gruppo Sportivo a credere nelle sue prospettive, da prima che entrasse nel programma olimpico per decisione del congresso CIO a Parigi 1994. Non per nulla il primo atleta italiano ai Giochi è stato il nostro Alessandro Bottoni, a Sydney 2000, che aveva ricevuto la possibilità di partecipare grazie alla carta olimpica conquistata da un altro atleta della Polizia Penitenziaria, Stefano Belandi, poi costretto a rinunciare alla trasferta in Australia per un infortunio. E ad Atene 2004, la nostra Nadia Cortassa è stata l’azzurra che finora è andata più vicina alla medaglia, quinta dopo una portentosa rimonta, purtroppo non sufficiente a portarla sul podio di Olimpia. Tra gli atleti ancora in attività, Davide Uccellari e Charlotte Bonin possono vantare due presenze olimpiche ciascuno: e questa è già una credenziale che farebbe felice qualsiasi triatleta, perché la sola qualificazione costituisce di per sé una vera impresa in questo sport che è diventato negli anni uno dei più praticati sulla faccia della terra.
Il perché di tanto successo? Probabilmente proprio il fascino della fatica, sondare i propri limiti: le stesse ragioni che avevano spinto il capitano Collins a lanciare nel 1977 quella sfida che sembrava insensata.
Sentiamo i protagonisti, che ci aiutano a capire l’essenza di questo sport attraverso le loro sensazioni.
DAVIDE UCCELLARI: “Il triathlon è qualcosa che vivo quotidianamente, a 360 gradi … quasi una sfida, perché bisogna allenarsi duramente e con costanza. La mia preparazione occupa tutta la settimana e ogni giorno mi alleno in almeno due discipline, mentre in alcune occasioni le pratico tutte e tre: un mix di allenamento intensivo e lavoro di qualità è la ricetta giusta per migliorarsi”.
ELENA PETRINI “All’inizio sembra quasi un gioco: per chi ci si avvicina, è divertente alternare nuoto, bici e corsa. Poi ci si accorge che la passione può diventare un lavoro: in quei momenti è importante anche l’aiuto degli altri e allenarsi in gruppo è davvero stimolante, serve tanta costanza per arrivare in alto”.
CHARLOTTE BONIN “Il triathlon è uno degli sport più faticosi e completi che ci siano, ma per me è prima di tutto la passione più grande e un vero e proprio stile di vita. Con i sacrifici che si fanno ad alto livello non sempre si può parlare di divertimento: gli allenamenti sono estenuanti, ma si sa che nello sport non ci si inventa nulla e i traguardi più belli sono quelli più sudati”.
BEATRICE MALLOZZI “Passione/fatica/divertimento: posso affermare con assoluta certezza che nello sport sono tutti punti di forza per la crescita personale. Combinati insieme, sono indispensabili per diventare un atleta professionista: e, per quanto mi riguarda, l’essere arrivata nelle Fiamme Azzurre costituisce il coronamento di un sogno e di una grande ambizione, coniugando passione e lavoro”.