“11 anni dentro, oggi sono arbitro e studio legge”

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Il secondo tempo nella vita di Luca è iniziato a maggio del 2018. Dopo 11 anni di carcere senza mai uscire, ora sta scontando l’ultimo anno di pena in regime di esecuzione esterna. Non è libero, ancora per qualche mese. Però si sveglia, va al lavoro in una comunità diurna, dalle 9 alle 17, rientra a casa entro le 21 e vive con la compagna e le figlie: la più piccola delle due non l’aveva mai vista prima fuori da una prigione, perché è stato arrestato durante la gravidanza. E infine Luca fa l’arbitro. È il primo del progetto “Le regole del gioco”, presentato oggi a Milano da “Bambini Senza Sbarre”, la onlus che da 15 anni si occupa dei genitori in carcere: sono 100 mila in Italia i bambini con madri o padri detenuti, 2,1 milioni in tutta Europa.

Il progetto è la naturale continuazione della campagna di sensibilizzazione “La partita con papà”, iniziata nel 2015 e che oggi coinvolge 60 istituti detentivi, 1.400 reclusi e 2.900 bambini, e prevede di trasformare in arbitri alcuni detenuti che potranno così incontrare i figli all’esterno: impareranno a trattare con le panchine a bordo campo nel ruolo di quarto uomo; a fischiare falli e lasciar correre quando necessario; a fare i guardialinee. Il tutto dopo aver preso parte a corsi di formazione e con la supervisione di Angelo Bonfrisco, già direttore di gara nella massima serie italiana. Saranno nei campi da calcio dei tornei organizzati da Cun Company, associazione sportiva dilettantistica che gestisce il Campionato universitario, la Lega delle scuole superiori, il Campionato per le imprese e la Expo Cup e che contattata ha messo subito a disposizione il proprio calendario partite e le proprie risorse.

“Se ho potuto arbitrare dentro al carcere ergastolani e condannati a 30 anni, posso farcela anche con i ragazzi universitari” dice Luca con un mezzo sorriso e molta sicurezza. Anche se le prime esperienze sul campo gli hanno già mostrato che la realtà è più complicata del previsto: “Li credevo più tranquilli gli studenti, invece quando ci sono l’agonismo e l’adrenalina, non c’è niente da fare, bisogna essere attenti e precisi”. Ne ha scherzato con Luigi Pagano, Provveditore in Lombardia dell’amministrazione penitenziaria e già storico direttore della Casa circondariale di San Vittore oltre che ex numero due del Dap, perché proprio il dirigente ha ammesso durante la mattinata di presentazione del progetto in via Pietro Azario, di essere stato squalificato in gioventù durante una partita di serie C.

“Diventare arbitri è come diventare giudici, si tratta di un contrappasso significativo dal punto di vista dei valori” ha detto Severina Panarello, Direttrice dell’Ufficio Esecuzione Penale Esterna in Lombardia, a cui rispondono 8mila persone in regione che godono di questo regime, dove la recidiva scende al 20 per cento rispetto all’80-85 per cento di chi sconta la pena in prigione dal primo all’ultimo giorno. Questo anche perché, spiega Luca al telefono, “se rimani chiuso per tanti anni e poi improvvisamente vieni liberato da un giorno all’altro, è una botta forte: sei disorientato mentre invece la gradualità è importante, sia dal punto di vista psicologico che lavorativo”. Luca un vero giudice in toga non lo diventerà mai. Ma non ci va così lontano: gli mancano tre esami per prendere la laurea in scienze giuridiche che serve a diventare consulente. E si vede quando sciorina i dati sulla recidività e le esperienze più o meno virtuose d’Italia nel recupero alla società di persone che in passato hanno avuto problemi con la legge. Nozioni che ha appreso per l’esame di diritto penitenziario. Lui, i suoi, li ha pagati a caro prezzo: “Non sono stato un angioletto, lo so, e non voglio passare per la vittima perché ho fatto degli errori grossi, anche se uno pensa sempre che ha pagato più del necessario e sopratutto avrei preferito che anche per i miei reati ci fossero delle misure alternative”.

“Però – aggiunge Luca – l’ho pagata: sono stato all’alta sorveglianza di Pavia, a Spoleto, a Taranto e poi Opera ma nel circuito comune”. “Quando ero a Pavia le mie figlie potevano venire di frequente, anche tutte le settimane. A Spoleto e Taranto a volte passavano anche otto mesi prima di vederle. La legge dice che devi essere rinchiuso nel raggio di 200 chilometri, per il principio della territorialità della pena, però poi nell’attuazione pratica non è così e ti possono mandare anche molto lontano dalla tua famiglia. Ne risenti molto”. Cosa succede adesso alla sua vita? “Con la piccola non ho mai vissuto, con lei è tutto nuovo, e c’è stata tanta sofferenza da ambo le parti. La vita dentro al carcere non ha nulla a che vedere con quella fuori: mangiare assieme alla sera, andare al parco, comprare un gelato, piccole cose che ti stravolgono perché prima eri rinchiuso fra quattro mura a fare sport”. Un nuovo inizio anche per la sua vita di coppia: “È tutto diverso anche con la mia compagna, non siamo più i ragazzini di quando mi hanno arrestato”.

Articolo di Francesco Floris per redattoresociale.it