Punzo: “Un premio alla Compagnia della Fortezza. Ora il teatro”

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Armando Punzo (credits Nico Rossi)

“Mi fa piacere questo premio. Che premia me, ma premia soprattutto tutta la Compagnia della Fortezza, tutti i collaboratori, perché non ho fatto tutto da solo”. Ringrazia, il regista Armando Punzo, quando gli chiediamo un’intervista per il Leone d’oro alla carriera che il 17 giugno prossimo riceverà all’Arsenale di Venezia nell’ambito della Biennale Teatro 2023. A noi, di Giustizia Newsonline, ci conosce fin dal 2004, quando parte della redazione si spostò a Volterra per seguire il Festival teatrale e organizzare un seminario internazionale dedicato a teatro e carcere. E il sottoscritto, in particolare, ha avuto l’onore di incontrare il regista per la prima volta quando accompagnò l’allora ministro della Giustizia Giovanni Maria Flick alla rappresentazione de I negri di Jenet, messa in scena nel grigio cortile dei passeggi del carcere. Era il lontano 1996.

Ringrazia e rilancia, Punzo, com’è nel suo stile. “Quest’anno riceviamo due premi, in realtà. Uno è quello di Venezia. L’altro è la notizia del teatro stabile all’interno della Casa di reclusione di Volterra che finalmente si farà, con un progetto che è stato aggiudicato all’archistar Mario Cucinella. Ora stiamo lavorando insieme e tutti noi speriamo presto di vedere realizzato questo teatro all’interno del carcere. È uno spazio che ci permetterà di fare meglio il nostro lavoro. Perché tutto il progetto tende a consentire maggiori possibilità di fare formazione professionale ai diversi mestieri del teatro, che è ciò che serve ai miei attori della Compagnia della Fortezza. In fondo questo è il carcere dove è nata una vera e propria compagnia teatrale riconosciuta; ma la struttura non ha mai uno spazio al suo interno ed era assurdo che la Compagnia della Fortezza non ne avesse uno. Anche perché durante l’inverno non possiamo fare i nostri lavori, che sono visibili solo in estate e per una settimana. Quindi tu lavori uno o due anni a uno spettacolo e vai in scena solo per una settimana. Fare teatro anche d’inverno permetterebbe, per esempio, alle scuole toscane di venire a vedere i lavori della Compagnia della Fortezza e questa sarebbe una cosa straordinaria”.

Dall’agosto 1988, sono 35 anni di lavoro nel carcere di Volterra, oltre 40 spettacoli e una Compagnia sempre diversa, che ad oggi conta circa 80 detenuti-attori. Con quanti detenuti hai lavorato fino ad oggi?

“Oddio, non ho mai fatto il calcolo. Tanti, tantissimi. Dopo 35 anni effettivamente credo di aver superato anche chi aveva da scontare pene molto lunghe. Evidentemente la mia non è sufficiente ancora…”, dice con una battuta per minimizzare. Ma subito si frena e aggiunge “no, non scherziamo su queste cose”.

Siete stati la prima Compagnia teatrale nata in un carcere. Ti è mai capitato di ripensare al primo giorno a Volterra? Come nacque l’idea di lavorare con i detenuti?

Ero molto più giovane 35 anni fa e l’idea è nata perché dovevo decidere cosa fare da grande. Ho alzato gli occhi e c’era il carcere e subito mi colpì l’idea del carcere come metafora, non per quello che effettivamente è. Come metafora della prigionia, dell’essere prigionieri. E di lì il pensiero come artista: ma quanto siamo prigionieri, quanto sono prigioniero io, quanto è prigioniera l’umanità? Mi incuriosì mettere insieme queste due anime che sembrano inconciliabili – ma sembrano soltanto, perché secondo me hanno possibilità di dialogare – cioè il massimo di chiusura che è il carcere e il teatro come espressione massima di libertà. Non ne ero così consapevole come oggi, però chiesi di entrare e dopo nemmeno un mese mi permisero di farlo.

Armando Punzo (credits Stefano Vaja)

Non a caso, forse, in diversi tuoi lavori hai svolto riflessioni su chi sia poi il vero carcerato…

Se usciamo dalla cronaca, ci interroghiamo sull’idea di libertà: l’uomo può essere libero? Ecco, la prigione è un luogo che architettonicamente, ma anche filosoficamente, dà da pensare. Poi ovvio che ci sia la questione legata all’attualità, cioè quella delle persone che commettono crimini e del carcere come luogo di espiazione della pena. Però a me colpiva questo aspetto: un modo per ampliare una riflessione sull’essere umano. E da quella riflessione ho scoperto, semplicemente, che in relazione a quella struttura, a quel luogo, a quell’architettura era il teatro stesso a uscirne arricchito. Non solo la struttura, non solo i detenuti e gli operatori, ma anche il teatro stesso si arricchisce dal contatto con la realtà del carcere.

Dal 1998 sei anche direttore artistico del Teatro di San Pietro di Volterra: c’è differenza fra il teatro fuori e quello dentro? Quando entri nell’uno o nell’altro ti predisponi in maniera diversa?

Io passo la maggior parte della mia vita in carcere, tutti i giorni. Appena finisco questa chiacchierata con te, io rientro dentro, stamattina ero lì, domenica ed ero lì, sabato anche ero lì. Dopo tanti anni, il luogo che credo veramente mi appartenga è il carcere, dove ritrovo il mio teatro. Ma non vedo differenza tra fare teatro dentro e fuori. Perché è il teatro che non fa differenza. Il teatro ha una sua logica, ha le sue regole, ha una sua vita e laddove delle persone si riuniscono, che sia su una strada, in una stanza o dentro un carcere, il teatro fa comunità con le sue regole. Le regole del teatro all’interno del carcere mantengono il rispetto per il carcere, ma restano le regole del teatro. E creano una comunità con degli obiettivi e delle regole completamente diverse. Il carcere annichilisce l’uomo: lo abbiamo pensato noi esseri umani per questo motivo. Il teatro invece mette l’uomo al centro.

Nel 2004, con un progetto finanziato dalla UE e appoggiato dal Ministero della Giustizia, avete provato a parlare di teatro e carcere in Europa. Con quali risultati?

Quei progetti consentirono di fare una prima mappatura di cosa fosse il teatro in carcere in Europa e se esisteva. Mi ricordo che in Svezia nemmeno esisteva il tema, perché per loro era talmente minima la presenza di detenuti nelle carceri, che per loro quello del teatro in carcere non era un argomento sentito. Io credo che sarebbe sempre interessante confrontarsi in Europa, anche perché questa Europa esiste e noi siamo in Europa. Cosa scoprimmo allora? Che l’esperienza nata nel carcere di Volterra era unica nel suo genere. Nel frattempo abbiamo continuato ad informarci e abbiamo visto che è un’esperienza unica nel mondo. Se andiamo in America, in un altro Paese o in un altro continente non troviamo cose simili a quelle che abbiamo fatto a Volterra. Per questo sarebbe interessante riproporre una nuova riflessione su scala internazionale.

E dopo tutto questo arriva il Leone d’oro alla carriera della Biennale Teatro 2023. Ti chiedo: è un riconoscimento solo al regista e drammaturgo o anche all’uomo?

Ti rispondo con la motivazione che informalmente mi è stata data dai direttori artistici di questo premio. E cioè che in un momento storico come questo, una persona come te, che lavora in questo modo, che per 35 anni ha continuato a lavorare producendo opere d’arte, diventa quasi un segno da sottolineare, un’operazione simbolica, un premio a un modo anche di concepire l’arte, di intendere questa professione, qualcosa che va sottolineato e va reso ancora più visibile. A me questa cosa ha fatto piacere, perché credo che sia un apprezzamento non soltanto come regista o come artista, ma proprio il segno di voler premiare chi ha scelto di andare in profondità. Tu pensa al Marat-Sade con cui vincemmo anni fa il Premio Ubu come miglior spettacolo dell’anno, gareggiando insieme con Strehler e altri personaggi importanti del teatro italiano. Ecco, all’epoca avrei anche potuto dare una svolta alla mia vita chiedendo di lavorare nei teatri stabili. Io non ho mai fatto una scelta del genere e sono felice di non averla fatta. In questo senso, dicevo, ho scelto di andare in profondità: per capire, per andare a fondo di tutto questo. Quindi mi fa piacere questo premio. Che premia me, premia questo tipo di scelta. E premia soprattutto tutta la Compagnia, tutti i collaboratori, perché non ho fatto tutto da solo. Per niente, proprio. Devo tantissimo a tutti i miei collaboratori artistici, dal primo attore detenuto che ha partecipato a questa avventura. Devo tutto a loro. In carcere mi sono formato e sono cresciuto. Dal primo direttore, Graziani, ai vecchi comandanti, che quando morì il direttore hanno continuato a sostenere il lavoro che avevano imparato ad apprezzare e nel quale il loro direttore credeva; all’attuale direttrice, Maria Grazia Giampiccolo. Tutti ci hanno permesso di andare avanti e di arrivare dove siamo arrivati oggi.